Cosa è successo alla fotografia nei dieci anni che partono dal 1986?
Le risposte possono essere tante e anche le domande da porsi rispetto ad una scrittura profondamente intrecciata al modo diffuso di vedere, di apprendere con le immagini quale è la fotografia: a che punto era la fotografia in Italia nel 1986? A sette anni dalle manifestazioni veneziane che tentarono di aprire in Italia una cultura del mercato parallelo a quello delle gallerie d’arte oppure, sotto un segno del tutto diverso, a quindici anni dall’inizio della lettura della fotografia come parte integrante della civiltà d’immagine in occidente nelle attività di raccolta ed esposizione del CSAC dell’Università di Parma, gli approcci potevano essere veramente infiniti ed infinite le storie da attraversare. Una linea di comprensione può benissimo allora essere quella data, come in questa esposizione, dalla selezione di testimonianze di un’attività di promozione costante, dichiaratamente orientata alla astensione di «belle immagini» secondo tracce (appassionatamente, sarebbe giusto dire), puntate verso il piacere del guardare e del mostrare. Da un percorso che abbandona quindi volutamente i rigori dell’interpretazione storica così come la militante (e spesso non del tutto disinteressata) promozione di determinate tendenze, è però difficile cogliere una linea leggibile; forte è il rischio dell’invisibilità, dell’apparente polverizzazione in iniziative espositive magari di un certo livello ma alla fine marginali, come spesso accade al lavoro dei circoli fotografici e non solo di quelli amatoriali. Il decennale, l’arbitraria celebrazione, è allora forse strumento adatto alla valutazione di alcuni dati, magari partendo da considerazioni di tipo brutalmente quantitativo. Ad oggi il gruppo composto da Antonio Catellani, Franco Piccoli, Vanni Murelli (che dal 1990, con altri, assume l’impegnativa denominazione di Camera Works, citazione non tanto velata della mitica rivista fondata e diretta da Alfred Sfieglitz) ha promosso centosedici mostre, praticamente una al mese per dieci anni, mostrando migliaia di fotografie di decine di autori in quattro diverse sedi: la Galleria della Coppa d’Oro di Parma, il Palazzo Ducale e il Coperto Aranciaia di Colorno, il Centro Civico Culturale di Sorbolo. Si tratta, insomma, di un’attività imponente che oltre all’aspetto meramente espositivo ha comportato la valorizzazione di spazi pubblici e il confronto tra autori di diversa cultura e di diverso orientamento. E certamente forte, data la quantità di autori ed opere allineati nella sequenza di queste mostre, la tentazione di leggervi una sorta di enciclopedia della fotografia recente. Incoraggia, in questo senso, anche la disposizione in ordine alfabetico degli autori che ha invece, mi pare, la funzione di spingere verso un confronto con le immagini il più possibile «trasparente» in una prospettiva – su cui si può essere o meno d’accordo, e chi scrive è su un’altra «lunghezza d’onda» – molto crociana, di confronto con l’opera che prescinde dalla sua storia e dalla vicenda del suo autore. Quello che è uscito dalla porta con un’impostazione cosi onestamente estetizzante, ovvero la storia, è però poi rientrato dalla finestra di una storia del vedere che in parte viene implicata dal lavoro dei fotografi ed in parte viene prodotta da un così fitto tessuto di iniziative. Un approccio come un altro, quindi, quello del regesto di immagini scelte entro una serie alfabeticamente ordinato di autori. Invito a rintracciare i nomi e i titoli e ad individuare le presenze ma non va in alcun modo utilizzato per vedere chi c’è e chi non c’è per stabilire graduatorie in merito. Non si tratta certo di un approccio sistematico nel suo allineare autori così differenti per portata ed attitudini, ma forse proprio il confronto di queste campionature di storie diverse può indicare la necessità di approfondire, in chi legge le fotografie, i singoli percorsi nel loro contesto. Evidentemente diverso è, per esempio, l’uso della texture della fotografia nel caso delle geometrie vicine alla ricerca off camera di Veronesi che troviamo nei colori di Amadini, dai neri sgranati e fondi delle immagini di Vasco Ascolini, una cifra stilistica parimenti radicato nella ricerca di un’autonomia della scrittura fotografica come trascrizione scenica e drammatica delle archeologie che trova esiti graficamente impressionanti nella fotografia per il teatro del fotografo reggiano. La definizione puntuale dei ritratti di Berisso rimanda invece ad un uso quasi iperrealista della fotografia, in una vertigine della precisione fisiognomica che elide e congela, ad un secondo sguardo, l’apparente bozzettismo dei «tipi». La fisicità drammatica dei corpi che agiscono le fotografie di Rosangela Betti colloca invece la fotografia in una zona di trascrizione proiettiva di un altrove, magari proprio di un agire artistico che trova proprio nel corpo il luogo deputato cosi come essenzialmente di trascrizione è la fotografia di Marie-Annick Bertrand che trascrive con saturi colori le delicate tessiture di superfici da lei create con una memoria forse non lontana dei motivi per tessuti di Sonia Delaunay. Ad un versante ancora opposto dell’uso del colore si pone Angelo Ceresa nel cui reportage si insegue un «colore locale» che va oltre la resa d’atmosfera per farsi qualità emotiva di uno spazio, così come accade per le biciclette di Antonio Catellani, arredo di architetture vernacolari o indicazione di presenze molteplici – non solo oggetto d’affezione delle città padane – tese tra metafisica dell’assenza e puntuale indicazione di luoghi e atmosfere. Ancora fotografia come scrittura metafisica nelle immagini di Caselli, con citazioni ghirriane temperate da un’ironia bonaria che ne attenua le implicazioni concettuali ben presenti, invece, negli interessanti «interfotogrammi» di Luigi Erba che articolano il tempo del lavoro fotografico in spezzoni di sequenze a tratti lievemente narrativi (come in certo Michaels o in Rafael Navarro) e a tratti in grado di dilatare e articolare spazi della banalità urbana; ben diverso è poi il racconto svolto dalle fresche istantanee di Giovanni Ferraguti, nella linea del grande reportage umanistico della Magnum. Recenti e meno recenti lavori di Franco Fontana mostrano poi tratti del percorso di questo noto autore, dalla citazione bauhaus della foto di Praga con la squillante nota pop dell’auto rossa alle riletture in chiave metafisica di spazi architettonici, in un «tutto nuovo» alla cui antitesi troviamo i bituminosi neri dei «ritratti di pezzi archeologici», fortemente emozionati, di Marcello Grassi. Il lavoro di Mario Giacomelli sulla terra è uno dei più noti capitoli della fotografia, ma dalle ricerche parallele a testi poetici, come le immagini per Passata di Vincenzo Cardarelli, emerge una riflessione sull’immagine e la memoria che offre ulteriori coordinate alle sue iconografie di matrice informale. Ancora un’aria vagamente metafisica si coglie nei controllatissimi toni dei ritratti di Maflìuzzi, con allusioni alchemiche degli androgini corpi, ribadite nelle studiatissime solarizzazioni come pure nei freschi ma estremamente complessi ritratti di Moncovà Pechovò, di derivazione esplicitamente surrealista fino alla citazione storica (come antenato dei Rayographs?) di un calotipo mentre un altro autore orientale, Tonu Noorìts, propone alcuni trittici con scenari urbani abitati da manichini disarticolati, come frammenti da un estraniato Hans Bellmer. Chiaramente diverso è l’uso della cultura surrealista che viene operato in molte aree del reportage, e lo dimostrano le immagini dai paesi dell’est di Stefano Pensotfi, sorprese come in rivelazioni di Cartier Bresson. Hanno poi un sapore sospeso tra immaginario retro e metafisica post cezanniana i toni alti delle immagini di Palma, con un ritocco ad aniline colorate come citazione storica e invenzione grafica. Entro la cultura del reportage civile va infine collocato il lavoro di Ferdinando Rossi, nella linea di Carla Cerati o di Luciano d’Alessandro più che in quella di Mario Giacomelli a cui si potrebbe apparentemente collegare per affinità tematiche. Ricondurre, per finire, il lavoro testimoniato dalle immagini di Edward Weston – erano state esposte in una memorabile mostra a Colorno – ad un percorso intrecciato alla cultura degli altri autori qui presentati apparirebbe certamente forzato; è sicuramente più giusto considerarle traccia di un riferimento alto, modello paradigmatico della ricerca di un’autonomia formale della fotografia. Entro un corpo così articolato di immagini, come si accennava all’inizio, l’unica possibilità è forse proprio quella di moltiplicare gli approcci, di riverberare le letture di un’opera su quella a fianco. Si dovrebbe forse considerare questa mostra, questo mosaico di sguardi moltiplicati, come raffigurazione in progress di uno sguardo che ricerca una sua autonomia procedendo per associazioni differenziali. Porre un’immagine di fianco all’altra, per dieci anni, senza altro limite che quelli posti dal gusto e dalla passione indefinibili, può portare a tracciare un disegno inaspettato. Immaginiamo e auspichiamo che il disegno della fotografia abbia ancora molte linee da tracciare. Resta comunque molto da leggere e da comprendere, molto da mettere in relazione nelle immagini che ci circondano, dentro e fuori dalle mostre. Ogni fotografia, prodotto della luce e del tempo ma prima di tutto di un pensiero, continua a produrre un suo tempo, un differente pensiero, altre immagini, infine.
Paolo Barbaro
Luglio 1996